MATER_MATUTA – AVE MARIA Mariaimma Gozzi Art curator & Editor
VERDI’S MOOD Cinzia Tedesco Sound Direction
MATER_MATUTA – AVE MARIA è il video d’Arte Contemporanea nato dalla collaborazione del critico d’arte Mariaimma Gozzi e la jazzista Cinzia Tedesco. Al suo esordio in occasione del Concerto all’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, esso ha letteralmente “incantato” il pubblico dell’ Auditorium, suscitando emozioni profonde nell’atmosfera evocativa, simbolica, spirituale. Le opere mostrano la bellezza femminile interiore ed esteriore, dalla dea della fertilità Latina Mater Matuta alla Venere di Palestina passando attraverso creature angeliche, eteree, mistiche. Il video, scevro di estremismi piuttosto con eleganza, è stato concepito anche con l’intento di denuncia contro la violenza di genere.
AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA ENNIO MORRICONE Sala Sinopoli, 18 maggio 2024
Works & Artists Giovanni Albanese Antonio Bernardo Fraddosio Marika Ricchi Michelangelo Galliani Alessandro Sicioldr Bianchi Omar Galliani Fabio Bix Massimiliano Galliani
Dopo aver indagato le ragioni terrestri endogene delle Barene, nella prima fase della ricerca, adesso lo sguardo di Gino Baffo coglie nuovi aspetti di quel ecosistema primordiale della laguna di Venezia. E si fa più riflessivo, poetico, conscio. Si sofferma a momenti sull’ampia varietà di flora e di specie vegetali in esse radicate, ne scorge le note olfattive e cromatiche sbocciate con la nuova stagione: la primavera. Coglie la delicatezza estetica, esteriore per arrivare all’essenza, già dai primi caldi, quando la flora ri_veste le terre affioranti, cangiando la nuda laguna in un esteso manto ora d’azzurro, ora di viola, ora d’altri colori. E quei rami secchi, tra i sedimenti limosi e argillosi carpiti durante l’inverno, restano affidati alle prime tele e ai quei primi pigmenti del tutto naturali. Adesso G. Baffo ci mostra il passaggio dall’elaborazione alla consacrazione, foriera di sintomi e conseguenze, incline alla contemplazione, allo spirituale. Del resto, non basta solo la materia trasfigurata per scivolare nell’indefinito, ora Gino interviene anche sulle particelle cromatiche affinché divengano campiture generose e fluide lumeggiature, dove lo sguardo s’invaghisce seguendo il corso del colore che cola e debordaoltre la definitezza del quadro per condurre nell’immaginifico. Ineludibile resta l’estremo afflato dei protagonisti e il processo fortemente impattante sulla superficie dell’opera e su di noi.
Ora il Limonium, che va dal rosa purpureo al violetto, chiamato anche “fiorella di barena”, si schiude vivace e prevale sul fango e sull’argilla mentre s’adagiano caldi raggi di luce vivificante all’alba e riverberi d’oro al crepuscolo, quando l’ultima luce si sofferma attimi a scandire il tempo, sotteso dall’artista, con le sottili vene dorate insinuate tra i vagheggi tonali come nelle reiteranti maree e re_flussi barenali. E quelle alghe verdi trasportate dallo sciabordio dei flutti marini s’affidano al primo appiglio limoso e le vediamo a sprazzi intrappolate lungo la struttura architettonica del quadro. Tutto compete a stigmatizzare la storia autoctona di un paesaggio e dei suoi infiniti paesaggi. Là in barena dimora la genesi, la morfologia, l’ecosistema di un habitat millenario e l’artista s’appassiona ed estrae il meglio da essa, con suadente idioma materico-pittorico trascinando noi a ri-percorrere il fascino di questa esigenza pittorica ambientale, costituita di materiale organico. Tutto ciò sottendere una potente vocazione di gesta ataviche in cui si affastellano memorie comuni a tutte le cosmogonie, intente ad ascoltare il microcosmo e macrocosmo, in riferimento ai quattro elementi primordiali. Ma ritornando su alcune premesse relativeall’interazione dell’artista sui tessuti, dopo l’avvenuta gestazione materica barenale, egli ci torna sopra -come già accennato- e c’interviene con velature di luce e sbuffi di colore -suscitando tra l’altro un favorevole approdo alla pareidolia- e le delicate trasparenze, la loro leggerezza, ci riportano alla cultura del vetro di Murano e all’antica tradizione veneziana del XIII sec. Basti osservare quelle lumeggiature bianche opache sulle tele di Baffo per trovarvi la somiglianza al vetro lattimo che sembra di porcellana. E insieme al vetro veneziano lo stupore pervade di fronte alle vene d’oro che scivolano lungo le sinuose fessure e tra i vuoti lasciati dal materiale organico sul tessuto, sembrano fiumi visti dal satellite, evocano il luccichio dei ghebbi tra le barene. L’oro giunge ad evocare l’origine artistica di Venezia, le sue vicende con l‘Impero bizantino, gli scambi con il Medio Oriente, la Siria, l’Egitto; basti fare una visita a Palazzo Giustiniani, basti visitare la basilica di San Marco per comprenderne il valore. Anche quando l’artista G. Baffo esige quei toni forti e potenti di rosso magenta e di nero seppia che si contrappongono ai delicati avorio, celeste, grigio caldo, cita l’imponderabile, l’imprevedibile, la passione che t’arriva sanguigna e cocente. Il tutto sempre accostato con una tale eleganza da farlo risultare armonioso e armonizzante, meno estremo e più condiscendente rispetto alla prima fase della ricerca, e la visione si risolve pacificata nell’animo.
In conclusione RE_FLUSSI BARENALI, la mostra dell’artista Gino Baffo, si presenta oggi a noi con oltre venti tele di generose dimensioni -compresi dittici e trittici- tese a descrivere il vissuto autoctono hic et nunc di fenomeni geologici naturali con i suoi flussi e re_flussi. Dove stavolta l’artista fa la sua parte in modo più incisivo. L’azione è rimasta la stessa dell’idea iniziale, ma l’interazione subisce il germinare di nuance spettacolari, autentiche esplosioni primaverili, da cui è possibile percepirne quasi l’essenza, e la materia giunge all’immateriale fissando financo immaginarie fragranze olfattive. L’intimità del dialogo tra la natura e l’artista si fa meno asciutta, sorge nuova linfa dalle sue stravaganze informali e dalle sue astrazioni pigmentali, humus di tutta l’indagine delle Barene di Gino Baffo.
RI_TORSIONI BAROCCHE: Fabio Bix
Mostra a cura di Mariaimma Gozzi
Palazzo Chigi
Ariccia
dal 14 maggio al 28 settembre 2022
Quando l’opera d’arte ti stupisce porta con sé un chiarore epifanico e costruisce un’apparizione, una manifestazione, una rivelazione, e alla bisogna è capace di provocare quel vago senso di spaesamento tra realtà e irrealtà insinuando il dubbio della finzione. L’artista visivo Fabio Bix fa il punctum proprio su questa realtà illusoria e lo fa quando intende confondere il mondo caduco e fuggevole da quello concreto creando stravaganti accostamenti tra le sue sculture – fatte con un fazzolettino di carta di pochi centimetri – innestate nell’unicità di un contesto paesaggistico o architettonico simbolico-significante. Cosicchè quei luoghi divengono quinte, fondali scenografici, che si dilatano alla vista con prospettive, scorci e orizzonti, capaci di suggerire atmosfere suscettibili di stuzzicanti e continui mutamenti, in cui l’estremo plasticismo delle sue sculture – di gusto marcatamente barocco – sempre in primo piano, danno il senso della provocazione approfittando dell’illusione. Si tratta di scenari intenti a ri-creare una realtà estrapolata che tradisce, inganna, integrando la verticalità del tempo, con le sue stratificazioni artistiche e culturali. L’occhio si fa sedurre dall’apparenza, si suggestiona di fronte alla stramberia della composizione, anche quando cerca l’armonia per sua fattura, ma inciampa sulla teatralità delle sculture sinuose modellate ad hoc dalla mano abile di Bix, che ri-anima l’inquadratura con quelle statue femminili e maschili, le quali come nel Seicento, sono interessate dal movimento libero, da andamenti serpeggianti e da torsioni a fiamma. Hanno quasi sempre forme generose date anche dall’imprevedibile folata di vento che il fazzolettino accoglie e incarna restituendo ciò che va ben oltre le aspettative e ben oltre l’immaginifico. Il dinamismo dei fugaci corpi, scavati dallo spazio circostante e dalla luce, ottiene ingerenze ottiche ed è cifra di come un “oggetto” possa indurre a soluzioni stilistiche fuorvianti, di come possa contraffare, artefare, mistificare. Ma soprattutto l’eccesso di certe movenze scultoree sono identitarie di uno stile ad oggi rivalutato e che ancora seduce: il Barocco. Ri_torsioni barocche, è dunque il titolo ruffiano e ad effetto di questa mostra, la quale vuole farci riflettere sulla complementarità delle diverse epoche. Infatti l’artista Bix nell’accostare passato e contemporaneo desidera il dialogo e la compenetrazione degli stilemi – a differenza di uno stuolo di artisti che rifiutano l’idea ignari di quanto quel passato sia attuale e ricco di spunti preziosi-. Fabio si sofferma in particolare sull’effetto che sortisce la sua “finta” scultura nell’ambiente visivo e per farlo passa anche attraverso lo studio delle sculture più potenti e travolgenti di G. L. Bernini: L’Estasi di Santa Teresa d’Avila; la Beata Albertoni; Apollo e Dafne; Il Ratto delle Sabine; sculture queste da cui non si sfugge se si desidera conoscere il genere. Ed è questo il motivo per cui l’artista Bix ritorce sull’arte contemporanea ciò che notoriamente viene rifiutato. Ma deve anche farci i conti perché le piccole sculture, seppur nell’emulazione riverberano quegli stati d’animo rimettendo tutto in discussione a colpi di concettuale senza disattendere la funzione provocatoria. E nel confronto, tra quel Barocco autentico e quello resuscitato da Bix, ti rendi conto di quanto è affascinante proprio l’eccesso scultoreo.
Tanto efficace e drammatico da rendere viva, intensa e “umana” la materia, che sia di marmo o di carta. Ritornando su alcune ragioni intrinseche al titolo, mai quanto nel Seicento la competizione e l’astio tra gli artisti genera ritorsioni, vuoi anche per le generose committenze; basti pensare alla competizione tra Bernini e Borromini, e quanto i papi contribuissero ad alimentare l’odio tra i due nella fabbrica romana che intanto era tutta un cantiere a cielo aperto. E senza scrupoli e al massimo della carica espressiva Bernini non esitó ad occultare le architetture di Borromini. Il tutto avvenuto tra illusioni, allusioni e delusioni, ed è per questo che Bix lo ri_torce ai giorni nostri come una anomalia che sortisce verità altre.
E parlando di eccesso, Bix eredita quella propensione all’esuberanza, tanto che perfino lo sfondo non riesce a rubare la scena alla piccola scultura di carta, seppur nella sua solennità – vedi la foto di Gerusalemme e il Muro del Pianto – seppur con le architetture di ferro stile Art Nouveau – vedi la foto della Tour Eiffel o del Ponte di Brooklyn – seppur con l’eleganza della prospettiva dei giardini di Lussemburgo; seppur con le più recenti architetture – vedi il Guggenheim Museum di Bilbao o l’Auditorium Parco della Musica o il Palazzo della Civiltà italiana a Roma o il Grande Cretto di Burri a Gibellina -. Come dimostrano alcuni scatti fotografici, di questa mostra in particolare, egli si avvicina con una certa audacia e una certa sfrontatezza anche alle architetture dell’indiscusso protagonista del Barocco, e dal coraggioso avvicinamento sorgono armoniose e desuete visioni – vedi le foto di Santa Maria Assunta in Cielo e di Palazzo Chigi ad Ariccia -. Di tutti gli scatti finora realizzati nei diversi spazi e luoghi – all’interno o all’esterno, di palazzi, di monumenti o di metropoli del mondo – siamo certi che l’artista Fabio Bix trovi la quadra nello scambio interagente, rifiutando l’idea di soverchiare tutto il resto, anzi, semmai aggiungere ed enfatizzare la narrazione visiva fino a renderla possibile nella sua elegante naturalezza. La scultura di Bix, conscia della filosofia contemporanea, assume il tocco barocco per ritornare su quelle persuasive affinità. Dunque Bix come Bernini si fa interprete della cultura del proprio tempo, ma ripercorrendo quel figurativo, tanto caro a Bernini, e ne prende il carattere ardito di continuo sperimentatore, in grado di innovare con infaticabile convinzione. D’altronde questo riflesso berniniano non stupisce dal momento che l’artista ispirò intere generazioni creando stuoli di imitatori, fino a guadagnarsi l’attenzione dei papi per i quali lavorò e per le grandi famiglie romane – come i Borghese, i Barberini, i Pamphilj, gli Aldobrandini, i Chigi -, ma anche di diversi regnanti europei. E come non comprendere l’urgenza di Fabio Bix di esprimersi soprattutto in questo contesto, Palazzo Chigi ad Ariccia, dove trova la mimesi perfetta con Bernini, genio inarrivabile, che incarna la scultura, l’architettura, la pittura e la scenografia, e adesso accoglie anche le bizzarre sculture contemporanee di Bix di cui, sono sicura, Bernini sarebbe entusiasta.
INSINUARTE: Classico/Contemporaneo; il bianco, il blu e altro.
Mostra a cura di Mariaimma Gozzi
Palazzo Sforza Cesarini
Genzano di Roma
dal 2 al 30 maggio 2021
La collettiva che presentiamo raccoglie le opere di quindici artisti tra i più rappresentativi dell’Arte Contemporanea, autentici fuoriclasse – nell’esclusività dei diversi linguaggi espressivi – del Disegno, della Pittura, della Scultura e dell’Incisione. Artisti che espongono nei musei più prestigiosi d’Europa e del mondo, vincitori di premi nazionali e internazionali. La peculiarità della mostra – che raccoglie oltre sessanta opere e denota, di per sé, una forte connotazione estetico-filosofica e spirituale – è di “insinuarsi” nell’architettura del tempo, vivificante interazione e contaminazione, con l’elegante allestimento ad hoc capace di coniugare il nuovo/contemporaneo tra le opere barocche della preziosa collezione Hager–Sportelli di Palazzo Sforza Cesarini.
Nel complesso impegno ermeneutico, attraversato dagli stilemi di ognuno, fa da cerniera la coesistenza equilibrata di tutte le opere – antiche e contemporanee – e il salto di quota si rivela eloquente oracolo poiché, sia che si tratti dell’ordine del mondo classico o delle stranezze del barocco o delle novità del contemporaneo, sia che si osservi il rigoroso realismo o si allontani fino all’astrazione, l’arte afferra e simboleggia le coscienze, e ci sfida a fermarci all’attimo fuggente o a renderlo indeterminato, infinito. Ecco, questa mostra chiede all’osservatore una partecipazione a-temporale o meglio, verticale del tempo, in cui tutto coesiste: Passato, Presente e Futuro.
Di certo il concept, ri-creato con seduttiva persuasione, conduce da una sala all’altra così come quando si sfoglia un libro di storia dell’Arte, e a chi volesse coglierne i caratteri salienti, a ogni sala sembrerà di voltare pagina, quando s’apriranno squarci scenografici e visionarie atmosfere pregne d’intenso chiarore epifanico. Le opere, nella molteplice vocazione del disegno, della pittura, della scultura e dell’incisione, possiedono il rigore ineludibile dell’armonia, ed esigono contemplazione e riflessione. Se la mostra testimonia un’inclinazione poliedrica degli artisti, v’è tuttavia una fiamma poetica unificante: l’aver studiato tutti all’Accademia di Belle Arti, incipit ed elemento sintomatico di chi non s’improvvisa artista. Naturalmente, ognuno possiede una precisa essenza identitaria e il suo contributo nell’individuare un’attitudine estetica, un gesto, una particella pittorica, un frangente materico, si riverbera potente nell’arte del XX e XXI secolo.
Pensiamo al disegno virtuoso di Omar Galliani – di cui alcune opere sono state paragonate a quelle di Leonardo e sono presenti nella collezione degli Uffizi e in altri prestigiosi musei del mondo – già fondatore di due movimenti artistici, l’Anacronismo con Maurizio Calvesi e Italo Tomassoni, e Magico Primario con Flavio Caroli; pensiamo alla pittrice del Neo-barocco Elena Tommasi Ferroni, capace di trovare un suo personalissimo stile e di riportare in auge un certo tipo di pittura (a lungo demonizzata) con autentica verve innovativa e immaginifica; pensiamo allo stile di Carlo Rea, che unisce da sempre gli studi musicali a quelli sulla materia, trovando il punctum unificante nell’astrazione delle “spore” e nella leggerezza delle sue opere realizzate con la garza e impregnate di quell’incipit musicale; pensiamo all’incisore Elisabetta Diamanti, che studia il DNA del segno per ex-spreme nuove e accattivanti possibilità estetiche determinate dal gesto inferto sulla lastra di metallo in cui ella restituisce, con la stampa, l’anima. I suoi soggetti ispirati alla flora possiedono la forza della leggerezza e, per dirla con Rousseau, “E’ necessario che la natura venga rimessa al centro dell’esistenza dell’uomo (…)”; pensiamo all’artista Giorgio Galli – tra gli ideatori del movimento Neo-astrazione romana (insieme a Elio Rumma), sorto a fine anni ’80 – che ci presenta nella mostra l’indagine condotta sulla luce e sulla materia nell’ultimo decennio, ri-percorrendo i sentieri esteriori (sul Lago di Nemi) e interiori dell’artista francese Jean-Baptiste Camille Corot; pensiamo allo scultore Michelangelo Galliani che s’affida allo studio anatomico formale della statuariaclassica – matrice da cui elabora efficaci commistioni tra marmo bianco di Carrara, paraffina, e metalli – compenetrato di elementi simbolici complementari e indissolubili; pensiamo allo scultore Marika Ricchi, sempre più concentrata nella ricerca analitica del particolare anatomico umano: i piedi; interpretati con elegante gusto formale ma suscettibili di stilosi e intriganti innesti col design; pensiamo al pittore e scultore Luigi Menichelli, che ha saputo coniugare la superficie modellata fittamente di foglie, di bacche e di esili ramoscelli, e la pittura, ricavando delle fascinose texture suggerite dalla delicatezza e dal vigore della natura; pensiamo al pittore Claudio Marini, che conduce la sua indagine “materica” – ispirata all’Informale Europeo (A. Burri ed E. Vedova) – declinata in tutte le forme, e introduce con affinata intuizione i famosi “cascami”, fili di cotone di cavi industriali – agire che rientra nella filosofia del riutilizzo dei materiali. Nelle sue opere elaborate con eloquenza poetica egli registra accadimenti sociali, politici e culturali: guerre civili, transumanze umane e tragedie dell’umanità; pensiamo alla ricerca di Stefano Trappolini, che trova una certa corrispondenza con l’Espressionismo astratto dello statunitense Robert Rauschenberg, e nella perlustrazione dilatata nel tempo approda alla soluzione stilistica della “sagoma dinamica”, la quale sintetizza il peregrinare dell’uomo nella società, condizione ineludibile dell’esistenzialismo; pensiamo a Carola Masini, una artista concettualmente impegnata a rintracciare il cammino antropologico dell’uomo, indissolubilmente annodano a oggetti simbolici e significanti, come memorie identitarie e distintive di razze, popoli e civiltà.
E naturalmente in questa mostra non deve mancare la presenza di giovani artisti talentuosi. Pensiamo al pittore Alessandro Sicioldr Bianchi, seguace di un figurativo accademico ri-portato a una dimensione surreale, tra oniriche ambientazioni e immaginifiche realtà -sempre in bilico tra conscio e inconscio di Junghiana natura – con forte e dominante inclinazione al simbolismo; pensiamo all’artista Alessandra De Sanctis, dalla sensibilità fortemente spirituale, intensamente coinvolta nella rappresentazione dell’immateriale che rende ben visibile dal tracciato del disegno formale accademico, ma incline a renderlo avvolto da un’aura spettrale, per cui ti ritrovi a scivolare con estrema naturalezza nelle umane inquietudini e nella drammaturgia dei suoi soggetti; pensiamo alla pittura Neo-realista di Emanuele Garletti, che interpreta diversi generi di donna con seduttive costruzioni ambientali -terribilmente affascinanti e verosimili- citando un gesto, un’espressione, un atto in cui tutto si consuma, e nel quotidiano vivere circostanziato ognuna delle donne rappresentate risulta essere autentica nell’immediatezza empatica. E infine pensiamo all’opera creata ad hoc per questa mostra, Tevere, di Massimiliano Galliani, che ci invita a fare un salto di quota su spazi immensi catturati dal satellite. E quindi da una dimensione non umana. Dove non esiste la prospettiva e non esiste l’illusoria linea dell’orizzonte, anzi il bianco evocativo della terra che affianca il fiume sembra uno spazio innevato da scalare e questo provoca un sintomo di spaesamento, di estraneamento e infine d’astrazione.
Occorre una precisazione riguardo il tema della mostra, o meglio il leitmotiv, che inizialmente, quando è stata ideata, privilegiava la bicromia “Il bianco e il blu”. Ci si è resi conto, in verità, col passare del tempo, che l’“essere” sente la necessità di nutrire la propria anima con tutti i colori che la natura le dona e quindi si è scelto di liberare l’azione degli artisti da qualunque steccato in favore di un nuovo ed auspicabile equilibrium. Di conseguenza la mostra s’è aperta alla policromia – ed è intitolata INSINUARTE: Classico/Contemporaneo; Il bianco, il blu e altro – estensione altresì interessante ed evidente durante tutto il percorso, in quanto non sarà difficile imbattersi in opere di tutti i colori. Certamente incontrando il bianco e il blu la citazione desidera evocare i colori che più hanno avuto successo negli ultimi cinquant’anni nell’arte: seppure la loro percezione sia distinta e scientificamente opposta, essi piacciono perché danno il senso dell’indeterminato e della trascendenza. Il bianco, che in passato veniva definito un “non-colore” – a parte Filippo Brunelleschi l’architetto illuminato che nel Quattrocento in modo rivoluzionario già lo utilizza per dipingere le pareti dei suoi edifici perché capace d’evidenziare la pulizia della forma – nel Novecento viene elevato a pieno titolo a “colore”, soprattutto come reazione al soverchiante Espressionismo Astratto di Jackson Pollock e alle ingerenze serigrafiche della Pop Art di Andy Warhol. Ecco perché il bianco diventa protagonista, tra gli anni Sessanta e Settanta prima negli Stati Uniti e poi in Europa. Ma già nel 1913 con l’opera, Un quadrato bianco su fondo bianco, di Kazimir Malevic s’avvia un processo rivoluzionario che ad oggi ci sembra insuperato e ci fa comprendere meglio il significato di “assoluto”. Il Suprematismo, il Minimalismo, il Concettuale, lo Spazialismo, tutti conducono ad un’unica matrice: l’astrazione e l’indefinito dell’arte! Certamente il bianco, utilizzato da alcuni artisti in questa mostra, non rientra nel concetto minimalista affermato dal pittore Frank Stella “What you see is what you see”; anzi, è ben lontano dalla loro indagine.
Se il bianco è irresistibile perché ispira misticismo, il blu non è certo da meno e v’è un punto d’incontro tra i due opposti colori: essi rendono magnificamente l’idea di astratto e d’indeterminato. E’ una seduzione che viene da lontano quella per il blu, basti pensare al blu Lapislazzuli dipinto da Ambrogiotto di Bondone nella Cappella degli Scrovegni a Padova; a Michelangelo che nel Cinquecento riprende da Giotto l’idea di utilizzare lo stesso blu Lapislazzuli per il Giudizio Universale della Cappella Sistina. Gli esempi sarebbero innumerevoli e bellissimi, per esigenza di sintesi evidenziamo che questo colore viene particolarmente rivalutato a metà ’800 dagli Impressionisti catturati dal blu indaco – vedi Monet e Renoir – passando per le Avanguardie Storiche per sfociare al più recente blu firmato Klein, che tra tutte le tonalità forse è quello che dà maggiormente il senso profondo dell’immateriale, l’idea di sconfinato, di onirico, d’inafferrabile. Un blu oltremare che si riverbera sulla storia dell’arte degli ultimi cinquant’anni influenzando alcuni dei più importanti nomi della scena contemporanea, da Vasarely a Spoerri; da Fontana a Hartung; da Paladino a Schifano. Insomma, il bianco e il blu; ma la mostra che presentiamo – come sopra detto – è anche policroma, ulteriore apertura e cifra delle intuizioni e percezioni degli ultimi mesi vissuti in nuova dimensione esperienziale. Resta il punctum di “insinuare” le opere d’arte contemporanea tra quelle già presenti della collezione Hager–Sportelli a Palazzo Sforza Cesarini. Location dalla luminosa architettura neoclassica, perfetta per accogliere l’armonia della Collettiva in un percorso espositivo scevro di estremismi in cui complementare e fecondo si narra l’accostamento delle opere tutte. E nello scambio interagente, di raffinato gusto estetico-filosofico e animistico, l’impatto sull’osservatore risulterà immediato, empatico, capace di rapire, suscitando ideali atmosfere a-temporali.
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